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Tunisia Arab Spring – Il successo delle primavere arabe

Tunisia Arab spring

Tunisia Arab Spring: Il successo delle primavere arabe

Autore: Pierre Varasi
Gennaio 2015

Il 23 novembre 2014 la Tunisia ha affrontato le prime elezioni democratiche dalla sua nascita negli anni ’50, dopo aver ottenuto l’indipendenza. Da quel momento il paese è stato guidato dal partito Neo Destour, uno dei più repressivi ed autoritari del mondo arabo. Le proteste che dalla fine del 2010 hanno vista la luce in tutte le città tunisine, dando origina alla cosiddetta ‘Rivoluzione dei gelsomini’, hanno ispirato la primavera araba, acclamata come un movimento rivoluzionario e portatore di democrazia in tutti gli stati coinvolti (dal Marocco allo Yemen). Purtroppo nella maggior parte di essi quello che la primavera araba ha lasciato non ha niente a che vedere con la democrazia: instabilità è presente quasi ovunque, con una guerra civile in Siria, militari al potere in Egitto, e gruppi terroristici che minacciano la pace.

La Tunisia è forse l’unica eccezione in questo sfondo, quello che sembrerebbe essere il lieto fine di anni di lotte intestine. Le elezioni, seguite da un ballottaggio il 22 dicembre, hanno visto la vittoria di Bèji Caïd Essebsi, del partito moderato Nidaa Tounes, che si definisce laico, social democratico, liberalista e innovatore. La vittoria, del 55,68%, apre un nuovo capitolo della storia della Tunisia, e dovrebbe portare ad una stabilizzazione del paese.

Ora si attende la formazione del governo, prevista per questo mese, e da quel momento la strada si spera essere tutta in discesa. Tuttavia, come sempre nel mondo globalizzato di oggi, il lavoro interno, per quanto necessario, non sarà sufficiente. Prima delle proteste che hanno avuto inizio nel 2010 il 7% del PIL era rappresentato dal turismo, e sarà molto difficile riportare il turismo a quei valori, dopo questi quattro difficili anni. Economia e democrazia sono sempre andate di pari passo, o quasi, e per quanto il legame di casualità non sia chiaro, lo è capire che un’economia funzionante sarà nei prossimi mesi uno dei fattori più importanti nel decretare l’efficacia o meno del nuovo governo, la sua durata e riuscita.

E mentre in un paese stabile problemi economici possono portare nel caso peggiore a nuove elezioni, in un paese democraticamente fragile e nuovo, affiancato da paesi instabili, non si deve dare per scontato che i tentativi per far funzionare le cose saranno illimitati. Il rischio di una ‘ricaduta autoritaria’ non deve essere sottovalutato dai politici e dalla popolazione stessa. Una crescita economica è in definitiva più importante che altrove. Un ruolo decisivo lo sta avendo, come nel resto del terzo mondo, l’istituto del micro credito, che ha visto la sua nascita in Bangladesh negli anni ’70; tuttavia la crescita deve arrivare dal governo stesso e da enti nazionali e sovranazionali, per poter essere duratura.

Le riforme sono già iniziate, per esempio da gennaio 2015, e cioè da quando la nuova legge finanziaria è entrata in vigore. Presentata dal ministro delle finanze Hakim Ben Hammouda essa prevede, fra i diversi provvedimenti, che le imprese offshore in Tunisia possano destinare il 50% della loro produzione alla vendita sui mercati locali, limite precedentemente del 30%. Inoltre gli investimenti vengono incoraggiati con la riduzione delle imposte per nuove industrie e con la revisione dell’Iva al 6% per gli apparecchi importati. L’investimento estero è ciò che salverà la Tunisia, e il governo ne è cosciente, come si nota dai provvedimenti finanziari.

Ad aiutare la Tunisia continuano ad arrivare anche aiuti dall’Unione Europea, che nel corso del 2014 ha complessivamente investito 201 milioni di euro nel suo territorio e nella sue economia. Ulteriori 10 milioni sono da poco stati donati sotto forma di sovvenzioni a favore di giovani imprenditori agricoli, che assorbiranno 5 di questi. 2 saranno investiti nella gestione di un programma di sviluppo agricolo, e i restanti 3 consolideranno un programma già esistente che opera nel governatorato di Medenine, sempre a sfondo agricolo ed ambientale.

Nel 2015 il Fondo Monetario Internazionale prevede una crescita del 3%, che l’inflazione diminuisca, in particolare grazie alle recenti riforme fiscali che il governo sta implementando, e una diminuzione del deficit dal 7.9 al 6.6 del PIL. Le previsioni sono quindi positive, e questo non avrà solo dirette conseguenze sull’economia del paese, in definitiva crescita, ma dovrebbe permettere stabilità politica e sociale. La stabilizzazione e crescita del paese è però minacciata dalle tensioni nella regione del Maghreb e del Medio Oriente, in particolare da quanto succederà nella vicina Libia. Solo un diretto confronto del governo con problemi sociali quali la disoccupazione giovanile e la disparità di genere presente nel paese permetterà alla Tunisia di essere il primo vero successo della primavera araba.

LINK TUNISIA SCHEDA PAESE
LINK GOVERNO TUNISIA

FONTI ARTICOLO “Tunisia Arab Spring: Il successo delle primavere arabe”
- euronews.com;
- lastampa.it;
- ifm.org;
- ansamed.info;
- africaneconomicoutlook.org

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Tunisia rivoluzione gelsomini

TUNISIA RIVOLUZIONE GELSOMINI

Tunisia Rivoluzione Gelsomini

Autrice: Elisa Mariani
Agosto 2016

LA RIVOLUZIONE DEI GELSOMINI IN TUNISIA: CINQUE ANNI DOPO

A distanza di cinque anni dalla rivoluzione dei gelsomini, molteplici sfide attendono ancora la Tunisia presieduta da Bèji Caïd Essebsi, spesso citata come esempio di successo trainante delle primavere arabe grazie ai notevoli cambiamenti apportati dal nuovo governo social-democratico.

A seguito del rovesciamento dell’assolutismo di Zine El Abidine BEN ALI, fortemente voluto dalla popolazione, soprattutto quella giovanile, in protesta per diversi fattori (povertà, disparità regionali, disoccupazione e sistema dittatoriale), è stata infatti redatta una nuova costituzione progressista incentrata sulla restaurazione di alcuni dei più importanti diritti umani quali la libertà di culto, di espressione, di coscienza, di sciopero e sull’uguaglianza tra uomo e donna per quanto concerne l’attribuzione di cariche istituzionali e questioni relative all’eredità.

Tuttavia, a tale progresso sociale e politico non è seguito un reale e concreto sviluppo economico come promesso dall’attuale governo e ciò ha portato il popolo tunisino, oggi come cinque anni fa, a scendere in piazza per chiedere nuove riforme economiche.

Il dato più preoccupante è rappresentato dal tasso di disoccupazione, che si attesta al 15,4% ad Aprile 2016 contro il 13% registrato tra ottobre 2010 e gennaio 2011, dunque il 2,4% in più rispetto al periodo in cui si ebbero le prime avvisaglie di rivolta della rivoluzione dei gelsomini. Tale dato è ancora più allarmante se si considera che il 55% dei tunisini ha meno di 25 anni.

Tuttavia, all’inizio del 2016, la Banca tunisina per la solidarietà ha accolto diverse richieste di prestiti e progetti che porteranno alla realizzazione di 14.720 posti di lavoro in più.

Inoltre, secondo stime recenti, il PIL si attesterebbe attualmente a 44,6 miliardi di dollari USA contro i 47,3 registrati nel 2014 e i 45,2 del 2015, evidenziando un netto calo.

Un altro dato significativo risiede nell’aumento del debito pubblico, da 24,6 miliardi di dollari USA nel 2012 a 28,4 miliardi di dollari USA nel 2016. L’indice di competitività delle imprese si attesta al 3,93% nel 2016 contro il 4,49% del 2010.

L’indice che misura la facilità di fare impresa migliora, seppur modestamente, nel 2015 (74), rispetto al 2014 (75) , rimanendo tuttavia distante dal valore tunisino più basso registrato nel 2010, ossia 40.

Aumenta invece la crescita dei consumi privati, passando dal +3,7 nel 2013 al +4,4 nel 2016.

A fronte della riduzione dei principali indici economici, il governo tunisino si sta impegnando per la realizzazione del Piano di sviluppo 2016-2020. Tale strategia comprende una serie di riforme volte a creare ulteriori posti di lavoro e ad intensificare la lotta contro la povertà.

Sono previsti, infatti, interventi economici su grandi opere urbane, stimoli al progresso industriale e incentivi alla green economy che richiedono lo stanziamento di 50 miliardi di euro e che sono possibili grazie allo sfruttamento di risorse del luogo e al contributo di soggetti privati. Lo scopo finale di tali interventi è avere un aumento annuale del PIL pari al 4%.

I settori più redditizi del paese sono rappresentati dai servizi e dalla manifattura, che costituiscono gran parte del PIL (rispettivamente 61.2% e 29% del PIL, secondo le stime 2015).

L’export è caratterizzato soprattutto da prodotti agricoli.
Altro tassello fondamentale per il benessere economico della Tunisia è il settore turistico, che favorisce anche la creazione di posti di lavoro.

Per quanto concerne i rapporti commerciali con l’estero, è opportuno ricordare l’importanza rivestita dall’Italia, uno dei principali alleati tunisini, con un export italiano verso la Tunisia di 3.033 milioni di € e un import italiano dalla Tunisia di 2.300 milioni di € nel 2015.

FONTI ARTICOLO “Rivoluzione dei gelsomini in Tunisia: cinque anni dopo”:

- cia.gov (Central Intelligence Agency US)
- infomercatiesteri.it
- tradingeconomics.com
- lookoutnews.it
- schedeflash.it
- esteri.it
- huffingtonpost.it

Turchia: un paese emergente nel cuore dei conflitti del Golfo

Turkey - un paese emergente nel mezzo della guerra

Turchia: un paese emergente nel cuore dei conflitti del Golfo

Autore: Diego Caballero Vélez
Marzo 2015

Nell’attualità quando parliamo della Turchia la prima cosa che ci viene in mente è quella di un paese dalle ricche città, buona economia, e con un sistema di educazione che promuove lo spirito dell’ Unione Europea dando agli studenti turchi la possibilità di andare in Europa per studiare, etc. In generale, la nostra idea di questo paese è quella di uno musulmano ma con una visione occidentale. L’ importanza di questo paese risiede nel suo sviluppo economico che è iniziato nel 2002 ed ancora continua.

Da quest’ anno fino ad ora, l’economia turca é progredita con una crescita economica costante del 5%, cifra incredibile considerando la crisi e le conflittualitá nei paesi vicini. La Turchia non possiede molte riserve di olio e gas ma la competitività dei suoi servizi, suprattutto nel settore del turismo, e la sua industria, lo compensano. Questa competitività ha fatto sí che molti paesi volgessero il loro interesse sulla Turchia per l’inversione nell’esportazione di prodotti.

Il settore delle energie rinnovabili è diventato uno dei più importanti e quei paesi che sono interessati ad investire lo fanno in questo settore. Soprattutto forniscono i materiali necessari di cui il paese ha bisogno per alimentare lo sviluppo di questo settore. Ma come è successo tutto ció considerando che 30 anni fa la Turchia era caratterizzata da un’economia molto povera? La risposta risiede in due punti principali: la stabilità sociale e la ricostruzione di tutto il sistema.

Il primo elemento è stato fondamentale per il successo dell’economia turca, poichè lo stato ha adottato una posizione moderata allontanandosi dagli estremismi. Inoltre “la ricostruzione del sistema” è stata una ricostruzione del sistema bancario, del controllo di bilancio statale, degli investimenti nelle infrastrutture, educazione, salute e tecnologia. Dal 2002 c’è stata una riduzione della disoccupazione, del debito pubblico e del deficit di bilancio del 19% del PIL ( considerando che comunque l’aumento economico negli ultimi anni ha subito un rallentamento).

Vorrei inoltre sottolineare l’importanza dell’aumento della classe media. Però non tutto sembra roseo attualmente per il futuro turco: un esempio ne é Erdogan, il presidente della Turchia, il cui nazionalismo musulmano sta impedendo alla Turchia la laicizzazione che tutti si aspettavano. Questo sta producendo instabilità sociale, anche per i tumulti delle regioni vicine a causa delle spinte estremiste. Quindi il futuro economico della Turchia dipenderá dall’esito delle guerre vicine (come quella della Siria), dall’avanzata del ISIS, etc.,

Inoltre la sua neutralità e stabilità sociale basata sul sistema laico, supporto per la crescita economica, come anche gli investimenti nel turismo e nelle energie rinnovabili, saranno influenti nel futuro scenario Turco, che continuerá comunque una vicina cooperazione con l’Unione Europea.

LINK Turkey Gov.

FONTI :

http://economia.elpais.com/economia/2013/06/07/actualidad/1370605232_985185.html

http://www.cnbc.com/id/100390252

http://www.foreignaffairs.com/articles/140338/daniel-dombey/six-markets-to-watch-turkey

http://www.nytimes.com/2014/12/23/opinion/akyol-how-turkey-sabotaged-itsfuture.html?_r=0

EU JAPAN

EU JAPAN – Economic partnership agreement

EU JAPAN economic partnership agreement

EU JAPAN : IL NUOVO ACCORDO DI PARTENARIATO ECONOMICO

Autore: Lorenzo Giusepponi
Gennaio 2018

D’ora in poi vi saranno maggiori opportunità per le imprese europee e giapponesi di accedere ai rispettivi mercati di export. Il 7 dicembre, il presidente della Commissione Europea, Jean-Claude Juncker e il premier giapponese Shinzo Abe hanno affermato che è ormai prossima la conclusione del negoziato sull’accordo di libero scambio che era iniziato del 2013 e che rappresenta il 30% del PIL mondiale, nonché un blocco di 600 milioni di persone, il che rende evidente il desiderio comune a entrambe le parti di mostrare a tutto il mondo un atteggiamento favorevole al libero scambio e contrario al protezionismo. Ora si aprirà una complessa procedura per la firma ufficiale, attesa nella prossima estate, che vede la discussione delle rimanenti questioni tecniche fino al raggiungimento di un testo finale. Successivamente, l’accordo dovrà essere approvato sia dal Parlamento Europeo che dai parlamenti dei singoli Stati membri. Entrambe le parti contano sull’entrata in vigore dell’accordo entro gli inizi del 2019.

Quadro generale

Le esportazioni dell’UE in Giappone ammontano già a 58 miliardi di euro per quanto riguarda i beni e a 28 miliardi per i servizi. Inoltre il Giappone si trova al quarto posto tra i Paesi verso i quali sono maggiormente dirette le esportazioni agricole dell’UE. Grazie all’accordo di partenariato economico, le comunità agricole e i produttori di alimenti e di bevande beneficeranno di un accesso agevolato al mercato giapponese, con una maggiore possibilità di lanciare i loro prodotti su un mercato di 127 milioni di consumatori.

Settore alimentare

I prodotti europei di alta qualità come vini, formaggi, cioccolato, carni suine e pasta sono molto apprezzati dai consumatori giapponesi, ma il Giappone impone su di essi dazi doganali elevati: dal 30 al 40% sul formaggio, 38,5% per le carni bovine, 15% sui vini, fino al 24% sulla pasta e fino al 30% sul cioccolato. Grazie all’accordo, il Giappone eliminerà i dazi su oltre il 90% delle esportazioni agricole dell’UE, e riconoscerà 205 indicazioni geografiche europee scelte dagli Stati membri per il loro reale o potenziale valore di esportazione. Di conseguenza, solo i prodotti riconosciuti potranno essere venduti in Giappone. Ciò renderà illegale vendere prodotti di imitazione e vi sarà una garanzia di qualità per i consumatori giapponesi.

Sicurezza alimentare

Le norme giapponesi sulla sicurezza alimentare, come quelle europee, sono altamente esigenti. Il Giappone, ad esempio, non permette che si faccia uso di ormoni della crescita nella produzione di carni bovine, e la legislazione che regola gli OGM è molto importante per i consumatori giapponesi. Parallelamente agli altri accordi commerciali dell’UE, l’accordo con il Giappone non metterà minimamente a rischio il grado di tutela europeo in materia di sicurezza alimentare. Tutti i prodotti di origine animale importati dal Giappone dovranno essere accompagnati da un certificato veterinario, come già accade oggi, e solo un’autorità competente in Giappone potrà rilasciare tale certificato. Ad essa, la Commissione Europea ha ufficialmente riconosciuto la competenza di certificare la conformità agli obblighi di importazione dell’UE. Inoltre, il Giappone e l’UE hanno stabilito l’istituzione di un comitato misto con lo scopo di affrontare il prima possibile la questione delle misure sanitarie e fitosanitarie.

Esportazioni

Il Giappone è la quarta economia mondiale e il secondo maggior partner commerciale asiatico dell’UE, preceduto solo dalla Cina. Tuttavia, per l’Europa, il Giappone è solo il settimo mercato di esportazione. Secondo le previsioni, l’agevolazione delle esportazioni in Giappone produrrà vantaggi per le imprese dell’UE che producono e commerciano, oltre ai prodotti agroalimentari, anche macchinari elettrici, prodotti farmaceutici, dispositivi medici, mezzi di trasporto, prodotti tessili e abbigliamento. Le esportazioni europee in Giappone di prodotti alimentari trasformati potrebbero aumentare persino del 180%, il che equivale a una crescita delle vendite fino a 10 miliardi di euro. Inoltre, poiché il Giappone ha accettato di adeguare le norme relative alle auto a quelle internazionali, applicate anche dall’UE, per i costruttori di automobili dell’UE sarà più facile vendere i loro veicoli in Giappone. Infine, dal momento che ad ogni miliardo di euro di esportazioni dell’UE verso il Giappone corrispondono 14.000 posti di lavoro in Europa, quanto più l’Europa esporta, tanti più posti di lavoro sarà possibile creare o conservare.

Appalti

Si stima che nei sistemi economici come quello europeo e giapponese, l’acquisto di beni e servizi da parte dello Stato costituisca oltre il 15% dell’economia totale. Si tratta di un mercato vasto e ricco di opportunità commerciali. Grazie all’accordo, l’UE avrà un migliore accesso alle gare d’appalto giapponesi a livello di amministrazione centrale, regionale e locale. Una delle priorità dell’UE nei negoziati era quella di poter accedere al mercato giapponese delle ferrovie più efficacemente. Il Giappone ha in gran parte accettato, e ha anche deciso di aprire gli appalti agli offerenti dell’UE per ospedali, istituzioni accademiche e distribuzione di energia elettrica, nonché di concedere ai fornitori europei un accesso indiscriminato al mercato degli appalti di 48 città che rappresentano il 15% della popolazione giapponese. Da parte sua, l’UE aprirà parzialmente il proprio mercato degli impianti ferroviari, e ha concesso al Giappone un migliore accesso agli appalti indetti dalle autorità comunali.

Protezione dell’ambiente

L’UE si impegna a garantire che la sua politica commerciale favorisca lo sviluppo sostenibile. L’UE e il Giappone si impegneranno a: conservare e gestire le risorse naturali in maniera sostenibile, affrontare le problematiche della biodiversità, anche contrastando il commercio illegale di specie selvatiche, praticare una silvicoltura sostenibile, anche combattendo il disboscamento illegale, e praticare una pesca sostenibile.

Fonti articolo EU JAPAN :

- ec.europa.eu
- www.ilsole24ore.com
- Video e foto

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Accordo di Parigi

“ Accordo di Parigi: le sorti del mutamento climatico ”

Accordo di Parigi sui cambiamenti climatici

Accordo di Parigi: le sorti del mutamento climatico

Autore: Giulia Turchetti
Dicembre 2017

Alla ventunesima conferenza sul clima di Parigi (COP21) del dicembre 2015, ben 195 Paesi hanno ratificato il primo accordo universale e vincolante dal punto di vista giuridico sul clima “Accordo di Parigi”.

Per “Accordo di Parigi” si intende un accordo globale sui cambiamenti climatici, volto alla creazione di un piano d’azione per limitare il riscaldamento globale al di sotto dei 2ºC. La stipulazione di questo accordo deriva dall’esigenza di trovare un rimedio ai cambiamenti climatici: una questione importante a livello globale con possibili ripercussioni per tutti.

A causa dell’esigua partecipazione al protocollo di Kyoto e alla mancanza di un accordo a Copenaghen nel 2009, l’Unione europea ha dato il suo contributo nella realizzazione di un’ampia coalizione di Paesi sviluppati e in via di sviluppo a favore di obiettivi prestigiosi. Questo ha chiaramente determinato il risultato positivo della conferenza di Parigi.

I governi dei Paesi firmatari hanno quindi stabilito di riunirsi ogni cinque anni per stabilire obiettivi più ambiziosi in base alle conoscenze scientifiche, riferire agli altri Stati membri e all’opinione pubblica cosa stanno facendo per il raggiungimento degli obiettivi fissati, e segnalare i progressi compiuti attraverso un sistema basato sulla trasparenza e la responsabilità.

Anche in Germania, a Bonn, si è tenuta il novembre scorso la Conferenza mondiale delle Nazioni Unite sul clima, più semplicemente nota come Cop23: ovvero il vertice delle promesse prese nella Cop21 a Parigi e da mantenere come impegno civile nel futuro. Un impegno che viene sentito con urgenza e necessità allo stesso tempo: infatti gli scienziati parlano di come la Terra stia sperimentando il periodo più caldo nella storia della civilizzazione e che la causa principale di tale fenomeno è proprio l’uomo.

Il tempo rimasto per agire purtroppo è poco ed è necessario intraprendere la strada di una rivoluzione climatica veloce ed ambiziosa, concretizzando la visione di Parigi, dandole gambe e corpo.

L’obiettivo principale dell’ Accordo di Parigi è quello di contenere gli effetti del surriscaldamento globale, limitando le conseguenze dannose derivanti dai cambiamenti climatici indotti dall’uomo, a partire dal 2020. A tal proposito i Paesi industrializzati contribuiranno allo stanziamento di un fondo annuo “Green Climate Fund” di 100 miliardi per il trasferimento di tecnologie pulite nei Paesi che hanno bisogno di un sostegno per avviarsi verso il cammino della green economy.

Malgrado proprio gli Stati Uniti si siano fatti promotori di questo importante obiettivo, in quanto classificabili tra i maggiori inquinatori responsabili del mutamento climatico, oggi potrebbero abbandonare la scena. Con una nuova amministrazione, guidata da Donald Trump, gli Stati Uniti si ritirano nel loro isolazionismo perché lo stesso Presidente ha più volte affermato che l’accordo di Parigi sarebbe un accordo squilibrato, che mina gli interessi americani e costituisce un ostacolo alla realizzazione del fare dell’ “America great again”.

Congiuntamente al ritiro si è accompagnata la scomparsa di un’intera sezione sul cambiamento climatico dal sito della Casa Bianca, sostituita da una dedicata a un piano energetico per l’America. L’intento di Trump è quello di eliminare politiche come il “Climate Action Plan”, da lui ritenute pericolose ed inutili. Esso consiste nel piano di riduzione delle emissioni sottoscritto dal suo predecessore Obama.

Tuttavia non si può uscire in modo unilaterale e lineare dall’Accordo di Parigi. Infatti esso contempla un margine di tre anni e un preavviso di un anno, il che fa quattro anni in tutto. Trascorso questo periodo di tempo sarà giunta la fine del mandato di Donald Trump.

Quindi la posizione degli Stati Uniti in materia di cambiamenti climatici potrebbe essere nuovamente negoziata e non essere definitiva, anche perché l’ipotetica distruzione dell’Accordo di Parigi, equivale alla distruzione della Terra stessa.

FONTI ” ACCORDO DI PARIGI “:

Europa.eu
Nazioni Unite
Wikipedia

TESTO ORIGINALE DELL’ ACCORDO DI PARIGI:

Accordo di Parigi English Version

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Trump – IL PIANO ECONOMICO DI DONALD TRUMP

Trump – IL PIANO ECONOMICO DI DONALD TRUMP

Trump piano economico per gli Stati Uniti d America

Redazione e traduzione a cura di Lorenzo Giusepponi
Dicembre 2017

Dopo una lunga e ardua campagna contro Hillary Clinton, Donald Trump, il candidato repubblicano alla presidenza degli Stati Uniti ha vinto le elezioni con la sua promessa di “ rendere l’ America di nuovo grande ”. Il repubblicano è ora il 45 esimo presidente, e il suo primo mandato andrà dal 2017 al 2021. Trump è entrato nella Casa Bianca affiancato da una maggioranza repubblicana in entrambe le Camere del Congresso, ma i precedenti scontri con i leader del partito potrebbero rappresentare un ostacolo per la riuscita del suo programma legislativo. Inoltre i democratici, nonostante lo svantaggio numerico in Congresso, potrebbero agire per bloccare alcune delle sue proposte. Da una lato, i sostenitori di Trump vedono in lui la possibilità di cambiare un sistema che, secondo molti americani, avrebbe aumentato le disuguaglianze e ridotto gli standard di vita, dall’altro la minaccia di nuove barriere commerciali e altre politiche protezionistiche ha fatto preoccupare gli investitori .

Reazioni dopo la notizia della vittoria

L’incoerenza di Trump circa le sue politiche ha creato incertezza, il che spiega la reazione del mercato dopo la sua vittoria. Gli indici Dow Jones, S&P 500 e Nasdaq, così come i mercati azionari europei, giapponesi e cinesi hanno iniziato a precipitare. In seguito, ad eccezione del peso messicano, queste reazioni iniziali hanno preso la direzione inversa.

Crescita

Trump sostiene la teoria dell’economia dell’ offerta . Secondo questa teoria, un aumento della produzione porta a una crescita economica. Tale teoria prevede una politica fiscale basata sulle imprese e incentrata sugli sgravi fiscali . Le aziende beneficiano degli sgravi fiscali e sono incoraggiate ad assumere più lavoratori . Questo produce una crescita dell’ occupazione che, a sua volta, genera più domanda e, di conseguenza, ulteriore crescita . Ecco perché Trump ha promesso di innalzare il PIL dall’ 1 % al 4 %, e persino di più, ovvero fino al 6 % annuo. Tuttavia, Arthur Laffer, ideatore della teoria, sostiene che le aliquote fiscali dovrebbero essere più alte di quanto lo sono oggi affinché la strategia abbia successo. Il segretario al Tesoro, Steve Mnuchin, è meno ottimista, e ha riferito che l’obiettivo dell’amministrazione è quello del 3 % . La Tax Foundation è invece più fiduciosa riguardo alle aspettative di Trump . Le sue previsioni mostrano che queste politiche porterebbero a una crescita del PIL del 6,9 % e dell’ 8,2 % nel lungo termine .

Occupazione

Nel settembre 2016, il Peterson Institute for International Economics ( PIIE ) ha scritto che, nel caso in cui venissero messe in atto, le politiche di Trump innescherebbero una guerra commerciale che porterebbe alla recessione e che comporterebbe la perdita di più di 4 milioni di posti di lavoro nel settore privato. Moody’s, che non la pensa molto diversamente, sostiene che le politiche di Trump avrebbero come risultato la perdita di 3,5 milioni di posti di lavoro nel giro di quattro anni, con un possibile aumento della disoccupazione al 7 % rispetto al 4,9 % attuale. Trump ha affermato che Giappone, Cina e Messico stanno rubando il lavoro agli americani, e che l’eliminazione dell’ esternalizzazione creerebbe più opportunità occupazionali . Trump non ha tutti i torti nel dire questo. Tra il 1998 e il 2010, infatti, gli Stati Uniti hanno perso il 34 % dei posti di lavoro nell’ industria manifatturiera. Molti di questi sono stati trasferiti all’ estero da aziende americane per questioni di risparmio, molti altri sono stati soppiantati da nuove tecnologie, come la robotica, l’intelligenza artificiale e la bioingegneria. Dei corsi di formazione sponsorizzati dal governo in questi settori potrebbero essere una soluzione più efficace rispetto alla guerra commerciale di Trump .

Tasse

Trump ha promesso sgravi fiscali a tutte le fasce di reddito e di far sì che i ricchi paghino le tasse, nonostante egli stesso abbia ricevuto varie critiche per aver apparentemente evaso le imposte sui redditi per circa vent ’ anni. Tuttavia, un’analisi della Tax Foundation ha scoperto che il piano fiscale di Trump aiuterebbe in modo sproporzionato gli americani più ricchi, permettendogli di risparmiare milioni. Il 17 dicembre, i repubblicani di Camera e Senato hanno emanato un disegno di legge che, se approvato, abbasserebbe la maggior parte delle aliquote, lasciando immutata l’attuale struttura di sette scaglioni di imposte sul reddito delle persone fisiche. Inoltre, abolirebbe, a partire dal 2019, la legge che prevede una multa per coloro che non hanno una copertura assicurativa. Inoltre, cambierebbe il metodo di calcolo dell’inflazione e fisserebbe l’aliquota delle imposte sui redditi delle società al 21 %.

Scambi commerciali

Trump ha affermato che decenni di politiche di libero scambio hanno portato al collasso dell’ industria manifatturiera americana, e ha quindi promesso di negoziare accordi commerciali appropriati che favoriscano l’occupazione, aumentino i salari e abbassino il deficit commerciale degli USA .
• Messico e NAFTA : il Messico è stato oggetto di una dura critica. Trump ha ripetutamente minacciato di imporre tariffe del 35 % sulle automobili importate dal Messico. Nel 2015, i veicoli erano la più grande categoria di beni importati dal Messico . Nello stesso anno gli USA hanno registrato un deficit nei confronti del Messico di $ 67,5 miliardi per quanto riguarda il commercio di beni e un surplus di $ 9,6 miliardi quanto ai servizi . Trump ha anche criticato l’Accordo nordamericano per il libero scambio ( NAFTA ), che lui stesso ha soprannominato il “ peggior accordo commerciale mai approvato nel Paese ”. Ci si aspetta quindi che Trump richieda una rinegoziazione del NAFTA o il ritiro da esso. Secondo l’articolo 2205 del trattato, egli può decidere di ritirarsi dall’ accordo con sei mesi di preavviso, tuttavia, secondo alcuni esperti, avrebbe bisogno dell’appoggio del Congresso.
• Partenariato transpacifico : Il Partenariato transpacifico ( TPP ) è un accordo volto a ridurre le barriere commerciali tra 12 delle nazioni che si affacciano sul Pacifico . L’accordo è stato firmato dagli Stati Uniti, ma non è stato ratificato dal Congresso. A gennaio, Trump ha firmato un ordine esecutivo per ritirarsi da ulteriori negoziati sul trattato, promettendo di sostituirlo con una serie di accordi bilaterali.
• Cina : il presidente sostiene che la Cina stia sopprimendo il valore della propria valuta, lo yuan, in modo da ottenere un vantaggio nelle esportazioni. In realtà, dal 2008 al 2010, la Cina è restata ancorata al dollaro, mantenendo il valore dello yuan inferiore ad esso, ma ora il governo sta intervenendo per rialzarlo. Inoltre, le riserve di valuta del Paese sono diminuite dai circa $4 trilioni del marzo 2014 a poco più di $ 3,1 trilioni in ottobre. Ciononostante, Trump ha promesso di imporre tariffe fino al 45% sulle esportazioni verso la Cina.

Infrastrutture

Trump ha promesso di aumentare gli investimenti nelle infrastrutture . Il muro che ha promesso di costruire lungo il confine con il Messico è uno dei suoi progetti più importanti. Il presidente ha stimato il suo costo tra i $ 5 miliardi ei $ 10 miliardi, mentre il leader della maggioranza in Senato, Mitch McConnell, e altre analisi indipendenti e hanno stimato il costo sui $ 25 miliardi. Trump, inoltre, insiste sul fatto che il Messico rimborserà gli USA per il suo costo. Oltre al muro di confine, Trump vuole incentivare altri progetti, tra cui miglioramenti alla rete elettrica e alle telecomunicazioni, nonché riparazioni di autostrade, ponti, porti, aeroporti e condotte .

Sanità

Trump ha promesso di revocare e sostituire l’ Affordable Care Act, conosciuto come Obama care . Grazie ad esso circa 20 milioni di persone hanno un’assicurazione, ma questo sistema fatica a funzionare efficientemente, dal momento che si basa sulla competizione tra gli assicuratori e che tale competizione è diminuita . Trump non è stato molto chiaro su cosa rimpiazzerà l’ Obama care. Durante la campagna ha proposto misure come: finanziare Medic aid, permettere agli assicuratori di vendere oltre i confini di stato e ai pazienti di detrarre i premi assicurativi dalla dichiarazione dei redditi, nonché di scegliere tra le cure mediche economicamente più vantaggiose.

Energia

In maggio, Trump ha affermato di voler rinegoziare l’ accordo di Parigi, un trattato che punta a limitare la temperatura media globale al disotto di 2 gradi celsius in più rispetto ai livelli preindustriali . Ciononostante, dal momento che gli USA rappresentano il 20 % delle emissioni globali di CO2, sarebbe complicato per gli altri Stati raggiungere il loro obiettivo senza il contributo degli USA . I dirigenti di Germania, Francia e Italia sostengono che l’accordo non sia negoziabile, mentre Cina e India hanno dichiarato di mantenere il loro impegno nei confronti dell’ accordo . Inoltre, siccome ci vorrebbero quattro anni per ritirarsi, è probabile che l’accordo di Parigi diventi una questione di dibattito durante le prossime elezioni presidenziali . In più, i piani di Trump comprendono l’abrogazione del Clean Power Plan, ideato per ridurre, entro il 2030, le emissioni di CO2 del 32 % al di sotto dei livelli del 2005, poiché questo aumenterebbe i salari di $30 miliardi nel corso di sette anni . La revoca abolirebbe le restrizioni alle emissioni di CO2 imposti alle centrali elettriche dall’ amministrazione Obama . Scott Pruitt, capo dell’agenzia per la protezione dell’ambiente, ha recentemente firmato una proposta per revocare la legge, che, tuttavia, potrebbe richiedere mesi prima di entrare in vigore. In aggiunta, Trump ha promesso di “ eliminare i miliardi di dollari con cui vengono finanziati i programmi dell’ ONU per il cambiamento climatico e di usare questo denaro per riparare le infrastrutture ambientali e idriche americane ”, nonché di dare il via a ulteriori perforazioni sul suolo di proprietà federale. Inoltre si teme che possa ridurre gli investimenti nel campo delle fonti di energia rinnovabili .

Politica monetaria

Nonostante i tassi di interesse vengano stabiliti dalla Banca Centrale Americana, la Federal Reserve, e non dal governo, durante le elezioni si temeva che la vittoria di Trump potesse minare la sua indipendenza . La Fed ha il compito di favorire l’ occupazione e di mantenere stabili i prezzi . Ad eccezione di questi requisiti, tuttavia, essa è indipendente, il che significa che non deve cercare l’appoggio del governo per cambiare politica monetaria . Dal momento che Trump ha affermato che la Fed sta agendo politicamente e che avrebbe appoggiato gli sforzi per ridurne i poteri, alcuni si sono detti preoccupati circa la possibilità di un tentativo da parte di Trump di limitare l’indipendenza della politica monetaria come anche altri presidenti hanno fatto in passato .

Ad oggi possiamo constatare un distacco tra le prestazioni dei mercati finanziari e quelli reali . Mentre i mercati azionari continuano a raggiungere nuovi livelli, la crescita media dell’economia americana è stata solo del 2 % nella prima metà del 2017, più lenta rispetto alla presidenza Obama . Durante i primi tre mesi del 2017, 533.000 persone hanno trovato lavoro, ma si tratta del totale più basso dal 2011 per un trimestre gennaio – marzo. L’inflazione è bassa e i profitti aziendali sono in aumento . Valutazioni di mercato elevate prodotte da un entusiasmo irrazionale non riflettono la realtà economica.

Fonti:

- www.investopedia.com
- www.thebalance.com
- www.theguardian.com
- www.fortune.com
- www.forbes.com
- www.bbc.com
- www.nytimes.com

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ONU

ONU – Organizzazione delle Nazioni Unite

ONU Organizzazione delle Nazioni Unite

“L’ ONU per la Giornata della Memoria”

AUTRICE: Giulia Turchetti
Gennaio 2018

Come si arriva all’ ONU? Dalla Società delle Nazioni Unite all’ ONU

Tra le numerose organizzazioni internazionali è l’ ONU (Organizzazione delle Nazioni Unite) a rivestire un ruolo chiave e determinante sulla scena mondiale. Essa consiste nell’Unione di Stati e i cui poteri sono sovranazionali. Oggi l’ ONU ha concluso mezzo secolo di vita, e deve la sua esistenza ai numerosi Stati Membri che la compongono, che sono tuttora in notevole aumento, in ragione della conquista dell’indipendenza da parte delle ex colonie.

L’ ONU è un’organizzazione le cui origini si fondano sulle ceneri dell’antica Società delle Nazioni. Quest’ultima infatti fu istituita dopo la fine della Prima Guerra Mondiale e visse soltanto un quarto di secolo. Con lo scopo di garantire la pace e prevenire gli orrori di cui la Grande Guerra era stata responsabile, essa seppe risolvere controversie mediante la conciliazione, ricorrendo soltanto laddove fosse stato necessario all’uso della forza armata. Fu in grado di promuovere la cooperazione internazionale, e per questo ottenne grandi riconoscimenti.

I risultati positivi che conseguì negli anni che vanno dal 1920 al 1932 ebbero l’effetto di renderla nota come il centro della diplomazia europea. Ma a partire dalla metà degli anni ’30 la Società cominciò ad assistere al suo lento ma progressivo declino. Se infatti gli Stati Uniti si erano fatti promotori della sua creazione, in quegli anni l’allora presidente Wilson decretò il ritiro del Paese dalla Società delle Nazioni, indebolendola notevolmente. Infatti ciò che ne derivò fu lo strapotere delle nazioni europee, quali Francia ed Inghilterra: la Società delle Nazioni aveva assunto un carattere troppo eurocentrico che causò la sua stessa fine. Inoltre una serie di eventi, come ad esempio l’occupazione tedesca della Renania nel 1936, facevano presagire lo scoppio di un imminente conflitto: quello che sarebbe poi diventato noto come la Seconda Guerra Mondiale.

Tuttavia benché la Società delle Nazioni si sia rivelata essere fallimentare, denotò un importante momento di crescita per il sistema amministrativo internazionale. Pertanto l’ ONU rappresenta lo sviluppo della Società delle Nazioni, perché condivideva, tra i tanti aspetti, il sostenimento della pace e prevenire conflitti d’ogni genere. La sua Carta fu firmata nel 1945 a San Francisco.

L’ ONU vuole promuovere il progresso sociale, reprimere l’intolleranza e garantire la sicurezza internazionale. Talvolta per esigere il rispetto delle sue disposizioni fa ricorso ai “caschi blu”, che si fanno garanti della sospensione degli atti bellici. Supervisiona il rispetto e le violazioni dei diritti umani negli Stati ONU, informando l’opinione pubblica sullo stato dei diritti umani nel mondo. Tuttavia nella sua lunga storia, l’
ONU, benché si sia fatta promotrice di importanti cause, come il mantenimento della pace e della sicurezza a livello globale, non ha altrettanto impedito il verificarsi di atroci guerre che sono ancora in corso.

Istituti specializzati

Ad oggi l’ ONU conta di numerosi istituti specializzati, ciascuno dei quali espleta una funzione peculiare. Tra i tanti ad esempio: l’Organizzazione per l’Alimentazione e l’Agricoltura (FAO), l’Organizzazione per l’Educazione, la Scienza e la Cultura (UNESCO), l’Organizzazione Mondiale per la Sanità (OMS), l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR), e il Fondo internazionale delle Nazioni Unite per l’Infanzia (UNICEF).

UNICEF e UNHCR sono inoltre esempi di ONG, cioè organizzazioni non governative, le quali si contraddistinguono maggiormente per due aspetti che sono: il carattere privato e l’assenza di profitto. Infatti ricevendo una parte importante dei loro introiti da fonti private, si impegnano per lo sviluppo dei paesi che sono più arretrati dal punto di vista sociale ed economico.

La Giornata della Memoria

Nel 2005 l’ ONU ha istituito una ricorrenza internazionale di non trascurabile importanza: la Giornata della Memoria per commemorare le vittime dell’Olocausto. L’ ONU ha decretato questa data, poiché il 27 gennaio 1945 avveniva la liberazione dei campi di concentramento. In questa giornata, inoltre, l’intolleranza, l’odio e l’aggressività verso persone e comunità motivate da differenze religiose ed etniche sono condannate senza riserva. È importante e soprattutto necessario ricordare, perché per essere cittadini consapevoli la conoscenza di fatti e avvenimenti realmente accaduti è una prerogativa fondamentale. Quello che la storia ci tramanda è un genocidio razionale, ben organizzato, che si avvaleva della tecnologia e di impianti efficienti per sterminare un popolo intero nel cuore dell’Europa. Gli stati membri dell’ ONU hanno il dovere di trasmettere alle nuove generazioni le “lezioni dell’Olocausto”, e a tal fine i luoghi storicamente significativi della Shoah vanno conservati. L’ ONU rifiuta apertamente il negazionismo.

Pertanto ad oggi il Segretario generale dell’ ONU, Antonio Guterres, rivolge un’esortazione alla quale non si può restare indifferenti: e cioè quella di “restare uniti contro la normalizzazione dell’odio, perché ogni qual volta e dovunque i valori dell’umanità vengono abbandonati, siamo tutti a rischio. Tutti noi abbiamo la responsabilità di resistere al razzismo e alla violenza con immediatezza, chiarezza e decisione. Con l’educazione e la comprensione, possiamo costruire un futuro fatto di dignità, diritti umani e coesistenza pacifica per tutti.”

FONTI: ( articolo ONU )

www.un.org/
www.agensir.it
www.unric.org/it

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Paesi in via di sviluppo, Come uscire dalla trappola della povertà?

Paesi in via di sviluppo, Come uscire dalla trappola della povertà

Paesi in via di sviluppo, Come uscire dalla trappola della povertà?

Autore: Pierre Varasi
Gennaio 2015

2,5 miliardi di persone nel mondo vivono sotto la soglia di povertà, pari a 2$ al giorno. 1,3 miliardi vivono sotto la soglia di povertà estrema, cioè con meno di 1,25$ al giorno. L’Africa sud-sahariana rappresenta da sola il 46,8% di questi (dati del 2011). Subito dopo si trova il Sud Asia, con il 24,5%.

Interrogarsi sulle origini e sulle cause di questo fenomeno è ovviamente importante, ma queste non sono semplici da trovare: alcuni studiosi danno la colpa al loro ‘naturale sottosviluppo culturale’, altri alle colonizzazione europee, altri ancora alle condizioni climatiche e del territorio, in ogni caso teorie poco conciliabili. Per quanto si potrebbero trarre argomenti a favore di ognuna di queste, penso sia più importante capire cosa si possa fare e non solamente guardarsi indietro.
Gli stati sviluppati provano da anni ormai ad aiutare questi paesi.

Dalla fine della seconda guerra mondiale, si è avuta una grande accelerazione nella nascita di istituzioni, movimenti e associazioni per lo sviluppo. Ma a distanza di quasi 70 anni gli aiuti si sono rivelati quasi inefficaci. Ciò che hanno sbagliato non è la quantità o la forma degli aiuti, quanto la modalità con cui sono stati consegnati, e quello che questi aiuti hanno comportato. In particolare, in moltissimi di questi stati non vengono rispettate tradizioni e cultura locale, ma semplicemente importati strumenti e anche costumi occidentali, senza tener presente delle unicità di ognuno dei paesi riceventi.

Ancora più importante è considerare che all’aiuto si è quasi sempre legato un qualche tipo di interesse: economico, condizionato a specifiche politiche e programmi, o anche all’acquisto di prodotti dal paese portatore di aiuti. Simili critiche possono essere fatte alle istituzioni di Bretton Woods: la Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale e l’Organizzazione Mondiale del Commercio. I paesi in via di sviluppo sottolineano come queste siano controllate ed influenzate dalle potenze mondiali, che impongono un’unica visione economica, quella neo-liberale; che minano la sovranità statale con le loro imposizioni; che concedono capitali, senza però assumersi la responsabilità dei lavoratori e dei migranti che qualsiasi trasformazione economica comporta. Infine, che applicano gli stessi strumenti ovunque e allo stesso modo.

Tutto questo non toglie però che degli aiuti siano necessari. In un paese povero la maggior parte degli introiti viene speso nel consumo, e questo riduce i risparmi. Ne seguono anche minor investimenti, fondi per innovazioni tecnologiche e non solo, cosa che porta ad una bassa produzione ed una crescita lenta. Questa è la trappola della povertà, definita così perché di rimando la bassa produzione porterà nuovamente a consumi limitati ma che costituiranno la maggior parte degli introiti. Ciò che a questo punto può cambiare le cose è solo un investimento esterno, che, quando ben sfruttato, può portare allo sviluppo di settori strategici e del turismo. Da questo principio deriva l’importanza del commercio, che dagli anni ’50 è costantemente aumentato, portando novità e cambiamenti in tutto il mondo.

Non mancano poi i difensori delle istituzioni sopra citate: gli stati non sono costretti ad accettare i crediti loro proposti, ma soprattutto, è davvero giusto lasciare che questi vengano usati liberamente da nazioni spesso corrotte e piene di problemi anche a livello politico e giuridico? Inoltre, con il tempo sono nati diversi movimenti che vorrebbero la cancellazione dei debiti per i paesi del terzo mondo, a dimostrazione del fatto che molti si sono ormai accorti degli errori commessi in passato e che questo debito vada a soffocare maggiormente le loro economie.

Come far uscire quindi questi paesi dalla trappola della povertà? Utilizzando sia prestiti da parte di stati e istituzioni, e gestendoli in modo controllato ma non necessariamente legato a clausole predefinite; ma soprattutto tramite l’investimento privato. Sigrid Kaag, assistente amministratore del programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo (UNDP), sostiene che senza investimento privato non ci sarà alcuna crescita significativa. Il settore privato porterebbe infatti conoscenze avanzate, innovazioni, modelli di commercio e produzione testati. Soltanto condividendo queste conoscenze sarà possibile un vero sviluppo nel Terzo Mondo.

La verità è che per quanto ci si possa sforzare, mandare soldi non basta per migliorare le condizioni di vita dei paesi in via di sviluppo. Lo stesso presidente della Banca Mondiale Jim Yong Kim ammette che i fondi pubblici non siano sufficienti, mentre un ruolo maggiore dato ai privati porterebbe alla creazione di nuovi posti di lavoro. Non sarebbero solo posti di lavoro ad essere creati, ma crescerebbero i salari. Questo porterebbe di conseguenza ad un miglioramento nelle condizioni di salute e vita, nei livelli di istruzione e nella creazione di infrastrutture. Le nuove aziende, trasferitesi da poco, genererebbero poi un nuovo introito per il governo, sotto forma di tasse; sarebbero competitive per il mercato e per questo emulate da quelle già presenti sul territorio, portando ad una maggiore produttività.

A lungo termine, tutto ciò renderebbe migliore la qualità dei prodotti, allo stesso tempo rendendoli più economici. Le fasce più povere della popolazione sono già un nuovo mercato per molte aziende statunitensi in India e Brasile, per esempio. Inoltre, non solo l’investimento privato deve concentrarsi in queste aree per tentare di aiutarle, ma anche per crescere: dalla crisi economica del 2008 la crescita del terzo mondo è stata un motore per le nostre economie.

FONTI:

- Worldbank.org
- UNDP.org
- IFC.org
- Baker, “Shaping the Developing World”

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Il Trattato Transatlantico TTIP sul commercio e gli investimenti: guadagni ad un alto prezzo

Trattato Transatlantico commercio estero e investimenti

Il Trattato Transatlantico TTIP sul commercio e gli investimenti: guadagni ad un alto prezzo

Autore: Pierre Varasi
19/03/2015

Il Trattato transatlantico sul commercio e gli investimenti (TTIP, da ‘Transatlantic Trade and Investment Partnership’) è un accordo commerciale di libero scambio tra Stati Uniti ed Unione Europea. In corso di negoziazione dal giugno 2013, dopo anni di preparazione informale, dovrebbe essere completato entro il 2015, o almeno così sperano i suoi sostenitori. Le critiche, infatti, sono dure, e arrivano da più fronti.

Il TTIP viene ufficialmente definito dall’UE come un accordo commerciale e per gli investimenti, con l’obiettivo di “aumentare gli scambi e gli investimenti tra l’UE e gli Stati Uniti realizzando il potenziale inutilizzato di un mercato veramente transatlantico, generando nuove opportunità economiche di creazione di posti di lavoro e di crescita mediante un maggiore accesso al mercato e una migliore compatibilità normativa e ponendo le basi per norme globali”. Un trattato che, nel caso fosse approvato, potrebbe essere esteso ad altri partner primari dei due colossi europeo e statunitense.

Partiamo da alcuni dei suoi punti principali: l’apertura dei mercati statunitensi alle imprese europee, la riduzione degli oneri amministrativi per le imprese esportatrici (i dazi), la definizione di nuove norme per rendere più agevoli export, import ed investimenti. Per semplificare, il trattato aprirebbe una nuova zona di libero scambio, semplificandone e migliorandone le procedure.

In economia gli strumenti della politica commerciale sono suddivisi tra: strumenti tariffari (dazi sulle importazioni e sussidi alle esportazioni), strumenti quantitativi (contingentamenti, cioè quote massime, e restrizioni volontarie), barriere non tariffarie (standard produttivi, sanitari, ecc.), il dumping (la vendita sottocosto sui mercati esteri) e infine misure ritorsive (contro pratiche scorrette di alcuni paesi o imprese). Il TTIP vorrebbe riuscire ad uniformare le barriere non tariffarie, portando precedentemente a dazi nulli sugli scambi bilaterali, e a mire anti dumping. Anche gli appalti pubblici saranno aperti ad imprese ed aziende straniere.

Quello che Unione Europea, Stati Uniti ed industrie vogliono ottenere è la creazione di nuovi posti di lavoro, la riduzione dei prezzi per i consumatori, aumentando allo stesso tempo la scelta in quanto ai prodotti. Solo in Italia si prevede che il trattato porterebbe ad una crescita del PIL tra lo 0,5 e il 4% e ad un aumento dell’occupazione. In totale, ci si aspetta una crescita dell’export del 28% circa, pari a 187 miliardi di euro. Effetti che in un periodo economico quale quello della crisi porterebbero certamente ad una crescita non indifferente e, ottimisticamente, ad un’uscita completa dalla crisi stessa. I benefici sarebbero infine burocratici ed amministrativi, e anche la maggior concorrenza potrebbe portare a più innovazione.

Il TTIP però, come prevedibile, deve affrontare pesanti critiche. Associazioni Slow Food, economisti, agenzie private e cittadini muovono critiche che non possono essere ignorate.
Le critiche si basano su ragioni di ogni tipo. Partiamo dal fatto che il TTIP sia stato per lungo tempo un accordo segreto nei suoi contenuti, cosa che ha portato ad una mancanza di trasparenza, almeno fino al 7 gennaio di quest’anno, quando la Commissione Europea ha pubblicato i testi integrali dei negoziati.

Le critiche più specifiche a ciò che il trattato comporterebbe riguardano, in particolare, l’uniformazione delle barriere non tariffarie: gli Stati Uniti usano, dichiaratamente, OGM, ormoni per le carni e un’altissima quantità di pesticidi, per esempio. I produttori di generi alimentari statunitensi non devono attenersi agli stessi standard di salvaguardia ambientale o di salute del bestiame della controparte europea.

Chiaramente, nel processo di uniformazione degli standard produttivi, i consumatori europei ci perderebbero, vedendo aumentare, nei propri supermercati, prodotti di minor qualità rispetto ad oggi, a causa dell’introduzione di prodotti geneticamente modificati vietati, per ora, in Europa. L’Unione Europa applica poi principi quali quello ‘dall’azienda agricola alla forchetta’ (farm to fork) e il principio di precauzione. Il primo consiste in un controllo di ogni passaggio della produzione, sempre monitorata e tracciabile.

Negli USA, invece, vengono controllati solo i prodotti finali. Il secondo riguarda invece un’altra differenza fondamentale: mentre in Europa è possibile ritirare un prodotto dal mercato se sussiste il rischio che possa costituire un pericolo per la salute, anche nel caso manchino dati scientifici, negli USA in assenza di una prova chiara di correlazione tra prodotto e danno l’alimento resta in commercio. Inoltre, in Europa è l’azienda che cerca di immettere il proprio prodotto nel mercato a doverne dimostrare la sicurezza; negli Stati Uniti è l’autorità pubblica a dover richiedere una prova di dannosità, cosa che avviene raramente.

Anche la crescita economica che tanto viene promossa dai sostenitori del trattato non è a prova di critiche: molti economisti sostengono che i posti di lavoro diminuirebbero, invece che crescere, per esempio a causa della scomparsa delle norme sulla preferenza nazionale in quanto ad appalti pubblici. Stiglitz, economista noto per le sue critiche al Fondo Monetario Internazionale, sostiene che ‘gli Stati Uniti, in realtà, non vogliono un accordo di libero scambio, vogliono un accordo di gestione del commercio che favorisca alcuni specifici interessi economici’.
I controlli sulla qualità dei prodotti, alimentari e farmaceutici in primis, restano comunque il centro delle tesi degli oppositori al trattato. La domanda è se sacrificare alcune normative e standard, aprendo completamente ai mercati statunitensi, allo scopo di far crescere l’economia delle due aree.

LINK
- EU (European Union)

FONTI :
- http://ec.europa.eu/index_en.htm (European Commission – Trade)
- ilpost.it “che cos’è il TTIP”
- http://stop-ttip-italia.net/

MERCOSUR : un’unione che deve rinnovarsi

Mercosur

MERCOSUR : un’unione che deve rinnovarsi

Autore: Pierre Varasi, 23/04/2015

Il 26 marzo del 1991 nasceva con il trattato di Asunción il MERCOSUR (o MERCOSUL, Mercato Comune del Sud), tra Brasile, Argentina, Uruguay e Paraguay. Quattro anni dopo entrava definitivamente in funzione, portando diversi cambiamenti nell’economia di questi paesi. I provvedimenti di questa unione erano infatti diversi e rappresentavano una novità per i paesi dell’America Latina. Primo tra tutti il libero commercio di prodotti, servizi e materie prime tra gli stati membri.

Fin dal 1995 vennero tolti così dazi e restrizioni al commercio. La somiglianza con il MEC (Mercato Comune Europeo) non è casuale: gli stati membri del MERCOSUR hanno sempre ammesso di prendere la Comunità Europea come esempio di un’unione economica tra stati. Altro elemento fondamentale fu l’istituzione di una tariffa comune verso stati terzi all’unione. Vennero poi istituiti organismi che coordinassero le relazioni tra paesi membri, in particolare con riferimento ad agricoltura, industria e tutto ciò che potesse essere rilevante da un punto di vista economico.

Questi organismi servirono anche per consigliare agli stati quali cambiamenti interni fossero necessari per permettere al MERCOSUR di rafforzarsi: il trattato che lo aveva istituito prevedeva infatti alcuni doveri, tra cui il raggiungimento di un mercato comune vero e proprio, che avrebbe reso possibile un movimento libero, anche di forza lavoro oltre che di capitale, tra gli stati membri. Infine, si prevedeva che gli stati membri dovessero essere democratici e garantire uguali diritti.

Dal 1996 entrarono a fare parte del MERCOSUR nuovi stati, Bolivia e Cile in primis. Nel 2003 aderì il Perù, nel 2004 Colombia ed Ecuador. Infine, nel 2012, entrò il Venezuela. È proprio l’entrata del Venezuela, però, a mettere in dubbio le basi su cui questa unione poggia. Come sappiamo, il Venezuela è stato nelle mani di Hugo Chávez dal 1992 al 2013, e per quanto ci siano stati decisivi miglioramenti sotto il suo potere nell’economia del paese, e non solo, non si può mettere in discussione che di democrazia non si sia trattato. Chiamato il ‘dittatore socialista’ non a caso, è morto nel marzo 2013, e da allora il Venezuela si trova nella mani di Nicolas Maduro. Ma torniamo al MERCOSUR: non solo l’ammissione del Venezuela ha rappresentato la prima vera eccezione ai principi democratici che stanno alla base dell’unione, ma inoltre Chávez si è più volte detto contrario allo stesso principio di libero commercio, sostenendo invece bisognasse portare l’unione verso nuovi principi socialisti. Nessuna delle decisioni fatte dal 2012 in poi è stata effettivamente implementata dal Venezuela, mettendo a repentaglio l’efficacia di vecchie e nuove proposizioni.

Dall’ingresso del Venezuela ad oggi, il MERCOSUR è stato re-indirizzato verso funzioni più politiche e sociali che economiche. Rimane quindi da capire quale sarà il ruolo di questa supposta area di libero scambio nel futuro. Tuttavia, potrebbe esserci una nuova spinta e questa potrebbe giungere dall’Unione Europea. Nei primi anni della sua nascita, MERCOSUR ed UE hanno tentato una collaborazione, ma fin dal 1999 le discussioni sono state interrotte e rimaste in una fase di stallo. Oggi, però, sembra esserci nuova volontà, in particolare da parte dell’Uruguay di Vazquez, di lanciare una collaborazione tra le due unioni.

Insieme alla presidente del Brasile Dilma Rousseff, Vazquez spera di riuscire a proporre un nuovo dialogo con l’UE. Se questo funzionasse non ci sarebbero solo conseguenze economiche per i due gruppi di stati, ma il MERCOSUR potrebbe avvantaggiarsi di questa nuova ‘linfa vitale’ per aggiornarsi e rimanere attivo. Il Venezuela sembra essere riluttante all’idea, ma, almeno in questo stadio delle cose, non ha grande influenza e non può far affondare il progetto.

Il bisogno di un rinnovamento è evidente se si considera che gli scopi che gli stati membri si erano posti negli anni ’90 non sono stati raggiunti, per esempio non ci sono tariffe ne politiche comuni verso paesi terzi esterni all’unione. Le difficoltà si originano anche per le troppe differenze tra i paesi membri: è difficile avere politiche comuni quando l’inflazione è in un paese al 6,7% (Uruguay, 2010) e in un altro al 27% (Venezuela, 2010). In particolare, gli stessi portavoce dell’unione ammettono che quando i principi sono effettivamente implementati, lo sono per la volontà di stati che stanno solamente perseguendo i propri interessi, e non per la volontà di perseguire gli interessi o gli scopi dell’unione.

Poi, come annunciato dal ministro degli esteri dell’Uruguay Rodolfo Nin Novoa, oggi il MERCOSUR partecipa solamente all’1% degli scambi principali fatti da paesi che optano per il commercio libero. Dato lo stato delle cose, e la quasi impotenza del MERCOSUR dal 2012, qualche cambiamento va di certo apportato. L’unione dovrà evolversi nel prossimo futuro, pur di raggiungere qualche risultato concreto, e puntare ad entrare in nuovi mercati se vuole sopravvivere.

FONTI :

- The economist
- Mercopress.com
- Buenosairessherald.com